Oggi, per riflettere

In questa pagina vengono pubblicati scritti di G.d.C. recentemente apparsi sulla stampa friulana, quotidiana e periodica.


Con riferimento alla polemica sorta dopo la rappresentazione dello spettacolo teatrale "Koj(o)né", si legga - sempre sul "Messaggero Veneto"  prima l'articolo di Raimondo Strassoldo (che critica quella rappresentazione), poi la replica di Garlini e la controreplica di Strassoldo. Sempre sul quotidiano friulano è stato pubblicato, il 24 dicembre 2000, questo interventi di G.d.C.     

I partigiani della Koiné 

Non vorrei che qualche lettore restasse disorientato se, ricordando la recente polemichetta che, su queste colonne, mi ha visto contrapposto anche duramente ad Alberto Garlini, adesso – leggendomi – mi trova schierato più al suo fianco (accadde anche su altro quotidiano, in maggio del 1999) che a fianco di Raimondo Strassoldo.

Ciò è conseguente al fatto che cerco di ragionare in ogni caso con il cervello e non col fegato; che ho le mie idee e che cerco di sostenerle, indipendentemente dal fatto che con il mio interlocutore mi sia preso gagliardamente per le corna. I miei concittadini, quelli (non molti) usi a frequentare un tempo il Consiglio comunale di Udine, probabilmente ricordano gli scontri all’arma bianca con Angelo Candolini, prima capogruppo della Dc e poi sindaco, scontri che però sfociarono in una sincera amicizia, interrotta solo dalla sua morte.

Devo dir subito che con Garlini sono d’accordo solo in parte, ma siccome non sono per nulla d’accordo con Strassoldo finirò col portar più acqua al mulino del primo.

Mi siano consentite due premesse. La prima. Il mio cognome paterno (del quale, come tutti, sono fierissimo) può prestarsi a "giochetti" satirici che – e in questo sono con Strassoldo – perseguitano anche me dagli anni della prima elementare. Ma io sono anche fierissimo del cognome di mia madre, Del Frate, cognome di una famiglia di contadini di Fauglis, con quattro fratelli di quel mio nonno emigrati in Argentina alla fine del 1800. Da mio nonno Federico e da mia nonna Luigia (che era figlia di un Craighero, contadino carnico di Paluzza), oltre che da mia madre che, quando ebbe conclusa la terza elementare, andò a lavorare a 11 anni, ho appreso il friulano (in due varianti di mònt e di plàn) che quindi, senza infingimenti intelletualoidi e salottieri, è la mia lingua madre. La seconda premessa è che, pur avendo scritto abbastanza in questi quasi 40 anni di attività pubblicistica e politica, non ho mai scritto nulla nella mia lingua madre.

Queste due necessarie premesse credo mi evitino di dover respingere scontate frecciate sulla nobiltà, sulla appartenenza alla classe dirigente aristocratica e sulla militanza a questo o quella "scuele".

Ciò premesso, veniamo al dunque, ovvero allo spettacolo teatrale che ha così tanto avvilito e preoccupato Strassoldo.

Non l’ho visto perché la mia grande giovanile passione per il teatro si è spenta quando le ruspe demolirono il vecchio "Puccini", che era stato il "tempio" di quelle mie stagioni teatrali e del quale avevo persino respirato una volta la polvere del palcoscenico.

Ma – per associazione di idee – ho pensato a "Fuochi sulle colline" di Luigi Candoni, andato in scena nel 1966, spettacolo celebrativo del centenario del cosiddetto plebiscito che sancì, tramite l’impero di Francia, il passaggio del Friuli centrale e occidentale dall’impero degli Asburgo al regno dei Savoia. Ho rivisto non tanto lo spettacolo quanto talune reazioni.

Candoni aveva messo al centro della vicenda teatrale il friulano Marco che, poco interessato e coinvolto dalle vicende della grande storia e delle continue invasioni subite dalla sua/nostra terra, si preoccupava assai di più di quello che poteva capitare al suo maiale, l’unica ricchezza che gli era consentita. E i "sorestàns" (che erano convinti di dover assistere al solito spettacolo patriottardo, intriso di Piccola e Grande Patria), s’alzarono indignati e – protestando fermamente – uscirono loro di scena.

Resta il fatto che io scrissi in favore dello spettacolo di Candoni in un libro uscito nel 1967 (non si lamenti Garlini per le citazioni: chi ha vissuto e operato non può non ricordare, specie se non ha cambiato opinione); così oggi non posso condividere quel senso grave di "lesa patria" che pervade l’articolo di Raimondo Strassoldo per uno spettacolo dissacrante, forse anche divertente, che tuttavia s’imperniava persino col titolo sulla questione della koinè che, secondo me, è argomento del tutto diverso della più complessa e profonda "questione friulana".

Secondo me, questo della koinè è un problema del quale falsamente si proclama l’importanza, alimentato con spirito corrosivamente partigiano da una porzione di quelli che scrivono – bene o male – in lingua friulana. Essi, appartengano a questa o a quella conventicola, non hanno un minimo senso di moderazione: sono dei veri e propri estremisti che hanno prodotto grammatiche e vocabolari branditi come autentiche bandiere di integralismo culturale che antepone, alla fin fine, le loro persone, i loro interessi (che sono anche interessi banalmente materiali,magari solo di piccoli pulpiti sui quali arrampicarsi) all' interesse del Friuli. 

Debbo, poiché Strassoldo si è anche riferito al Movimento Friuli dei tempi durante i quali questa formazione politica fu fieramente avversata perché era un movimento politico nuovo, veramente autonomo, con capi e militanti tutti residenti in Friuli, con strategie e linea d’azione che venivano decise in Friuli, ricordare che io lasciai quel Movimento quando – sul settimanale organo ufficiale "Friuli d’oggi" (che anch’io contribuivo a finanziare con le trattenute del 50% sugli emolumenti riscossi come consigliere regionale) – comparve, il 21 febbraio 1972, un mese dopo la morte di quel grande friulano che fu Fausto Schiavi – una traduzione da Sartre intitolata "La kulture baske (furlane) e-a’ di sej une Kuintri-kulture", proponendo problemi non solo di grafia ma, soprattutto, di impostazioni politiche per me inaccettabili.

Lasciamo quindi che i friulani, direi finalmente, ridano prima di tutto di se stessi e applaudano chi li fa ridere, magari solo per la scontata battuta che il Friuli non ha avuto uomini grandi con l’eccezione di Primo Carnera. C’ è invece da sperare fermamente che sia finito il tempo di chi li faceva piangere, in Friuli e nel Mondo, continuando a toccare le vecchie corde della retorica, intonando canti nostalgici, finendo col dire che il Friuli non morirà mai, ma non facendo nulla di concreto per farlo vivere, esaltandosi a dire di "ponti" tra passato e presente e tra le generazioni, facendo finta di non sapere che il mondo gira e che se vogliamo davvero salvare la cultura friulana (cioè quel complesso di valori dei quali la lingua è un valore importante, ma non l’unico, specie se su quella finiamo per dividerci per le pipe, le cediglie, gli accenti e i vocaboli che tanto amiamo "parcé che al mio pais si dìs cusì") dobbiamo – se siamo responsabili – fare tutti un passo indietro per trovare quella concordia che ci consenta una corretta e rapida attuazione della legge dello Stato che ha finalmente riconosciuto i friulani minoranza linguistica storica nella Repubblica italiana, riconoscimento del quale – mi pare – sfugga l’esatto valore.

Siccome questa è una legge di impostazione spiccatamente democratica, che deve essere gestita dal basso, non ho né capito né apprezzato il fatto che la Provincia di Udine abbia, con un atto d’imperio, incluso nell’ambito di tutela anche Comuni che non si erano sentiti coinvolti e quindi non avevano inteso chiedere di essere compresi nell’ambito territoriale di cui all’ art. 2.

E’, secondo me, un pessimo inizio: siamo e saremo friulani solo se abbiamo e avremo la dignità di sentirci friulani.

                                                             

CIAMPI, UN VERO AUTONOMISTA

(Articolo pubblicato sul "Messaggero Veneto" del 3.1.2001, pagg. 1 e 2)

Chi, come me, da tanti anni si batte per affermare che amare il proprio campanile e la propria regione (che è una e una sola) non è affatto in contraddizione con l'amore per il proprio Stato e per l'Europa; chi, come me, si è sentito etichettare durante il corso di tanti anni - da chi crede che le etichette sprezzanti valgano più dei pacati ragionamenti - in modi anche offensivi e sempre falsi, ha sinceramente gioito l'ultimo giorno del 2000 ascoltando un basilare concetto espresso, con forza e convinzione, dal Presidente della nostra Repubblica, Carlo Azelio Ciampi.

L'uomo che ha la rappresentanza di tutto lo Stato ha detto la sua fierezza di essere livornese, toscano, italiano ed europeo: quattro valori di una stessa scala morale, affermando che non vi è contraddizione tra questi valori, ma logica e armoniosa integrazione.

Nessun suo predecessore si era espresso così: significa che i valori nei quali noi da tanto tempo crediamo hanno conquistato anche la suprema carica della nostra Repubblica.

Ricordo che quando Fausto Schiavi, alla fine degli anni '60, nel nostro Consiglio regionale, proclamando la "bicipità" di questa regione (bicipicità incontestabile e inconciliabile, come dimostrano anche gli scontri territoriali di questi ultimi giorni), additava la meta del Friuli regione, la stragrande maggioranza dei membri di quel Consiglio tentò di sommergerlo con ogni sorta di accuse. Egli tirò fuori dal portafoglio la sua tessera del Movimento europeista. Schiavi, dunque, precursore di Ciampi.

In questi tempi si assiste ad un tentativo di messa al bando, anche all'interno di partiti che dimostrano di aver perso - col cambiare il nome - anche il senso della storia di tante loro battaglie, di quelli che intendono, anche con proposte diverse, sia venuto il tempo di dare al Friuli una propria originale rappresentanza, continuando una strada che fu degli autonomisti del primo dopoguerra.

Sempre in questi tempi, si assiste ad un arrabattarsi intorno a proposte (che non hanno sicuramente neppure il pregio di essere nuove), per tentare di falsare i termini della questione dilatandoli, coinvolgendo nel sogno anche un Land che appartiene e una Repubblica confinante con il Friuli e, addirittura, una sovrana Repubblica contermine.
Per noi, autonomisti friulanisti, il disegno è assai più semplice, logico e persino graduato nel tempo, perché la nostra esperienza ci ha insegnato anche ad aspettare.

E' indispensabile tuttavia che, al più presto, il Friuli possa identificarsi attraverso l'Assemblea delle sue tre (e domani quattro) province. Questo - per ora - accettando il principio che questa regione "bicipite" possa tentare di risolvere i problemi degli equilibri territoriali non con rissose dispute su chi ha avuto di più o di meno, ma attraverso una ragionata articolazione tra il Friuli e Trieste.

Se poi, alla prova dei fatti, anche questa soluzione si rivelerà inadeguata, occorrerà riprendere con forza il disegno di giungere alla istituzione di una regione Friuli, senza condizionamenti esterni di alcun genere.

Questi progetti di amore per le proprie piccole patrie, persino quelle comunali, di questa Italia delle cento città, hanno avuto l'avallo autorevolissimo del Presidente della Repubblica e quindi osiamo sperare che i nostri detrattori - anziché scagliare contro di noi anatemi o sciocche definizioni - si mettano a riflettere finalmente, così come i "costruttori" di fantasiose soluzioni.

Abbiamo scritto che sappiamo aspettare. Abbiamo aspettato e Ciampi ci ha reso giustizia.

 

Una ricostruzione storica dopo il sì del Vaticano 

La lunga strada per la lenghe                          

(Articolo pubblicato sul "Messaggero Veneto" del 1.2.2001, pagg. 1 e 9)

La notizia - forse data con non eccessiva evidenza - che la Congregazione per il culto divino aveva emesso il decreto 127701/L con il quale è stato approvato dalla Chiesa cattolica il Lezionario friulano (ovvero la lingua friulana è stata riconosciuta lingua liturgica) non può che rallegrare tutti quelli che, da almeno trent'anni (in qualche caso 40), si sono battuti per ottenere questo fondamentale riconoscimento.

E' quindi opportuno riassumere tanto cammino, ricordando qualche nome e chiedendo scusa per le inevitabili omissioni che ci spingono a proporre ai giovani studiosi di ripercorrere questi anni dando così imparzialmente a ciascuno il suo merito.

La parte più sensibile del clero friulano aveva pensato che, dimentico il Parlamento dei diritti delle minoranze linguistiche dopo averli riconosciuti nella Costituzione, si sarebbe dovuta percorrere - per ottenere un importante "segno" a favore della lingua friulana - la strada del riconoscimento da parte del Vaticano.

Ma per imboccare questa via occorreva che il "corpus" delle Sacre scritture fosse tradotto nella lingua friulana della quale si richiedeva la consacrazione a lingua liturgica.

Don Francesco Placereani, come lui stesso ebbe a ricordare, cominciò già nel 1958, a tradurre direttamente dal greco il Vangelo. Subito dopo, nel 1962, si costituì "Int furlane", una costola della "Scuèle libare furlàne". Questa nuova associazione, che comprendeva sacerdoti e laici e tra questi quale animatore il rag. Etelredo Pascolo, l'anno seguente cominciò a stampare un mensile che aveva come testata la stessa denominazione della neonata associazione.

In questo ambito anche il proposito di procedere alla traduzione delle Sacre scritture prese più vigore e si cominciò a pensare anche alla traduzione degli Atti degli apostoli e successivamente dei Messali.

In quegli anni (1964 prime elezioni regionali - 1968 nuove elezioni regionali), i partiti politici erano assai lontani dall'affrontare questo tema. Dal 1969, dopo l'elezioni di 3 consiglieri regionali friulanisti, il tema del riconoscimento della lingua friulana cominciò a fare capolino anche nel Consiglio regionale.

Si era compreso che - senza nulla togliere al merito di chi stava lavorando per tradurre i sacri testi - un eventuale riconoscimento del friulano nella liturgia (meta che appariva allora un miraggio anche per molti di quelli che la perseguivano) da parte della Santa Sede sarebbe stato necessariamente conseguente ad un riconoscimento da parte della Repubblica Italiana. E così è stato.

Un momento particolarmente importante è rappresentato da quanto accadde a Aquileia, il 12 luglio 1970. E a questo proposito bisogna ricordare i grandi meriti dell'arcivescovo di Gorizia, (sotto la cui giurisdizione, come è noto, è la millenaria basilica), il friulano mons. Pietro Cocolin.

In tema di arcivescovi e vescovi friulani va fatta una osservazione. La recente nomina di mons. Brollo a arcivescovo della Diocesi di Udine (che comprende solo il Friuli centrale) ha dimostrato che, da parte degli organi di informazione, vi è un' idea assolutamente riduttiva della consistenza geografica del Friuli. Mons. Cocolin era friulano così come mons. Abramo Freschi, all'epoca vescovo di Concordia-Pordenone. Ne consegue che il Friuli - nella sua reale interezza - ha avuto abbastanza recentemente più arcivescovi e vescovi di quelli che vengono ricordati.

L'arcivescovo Cocolin consentì che l'arciprete di Aquileia, mons. Luigi Marcuzzi, ospitasse nella basilica quella prima messa grande in lingua friulana e le autorità civili (era allora sindaco il comunista Gastone Andrian) parteciparono convinte prima alla presentazione del Vangelo tradotto da don Francesco Palcereani e poi, nella basilica, alla messa in lingua friulana.

L'anno seguente, sempre per la ricorrenza dei santi martiri aquileiesi Ermacora e Fortunato e sempre nella basilica, fu lo stesso arcivescovo di Gorizia, Pietro Cocolin, ad officiare la messa, con 6 concelebranti: mons. Pietro Londero, mons. Casimiro Humar, mons. Eulogio Sabbadini, mons. Saverio Beinat, mons. Pistip e l'arciprete Marcuzzi.

La liturgia in friulano fu integrata da letture in tedesco e sloveno. Mons. Cocolin pronuciò l'omelia in friulano "di Guriza", presenti numerosi fedeli friulani, carinziani e sloveni.

In quella occasione fu annunciato che 7 sacerdoti avevano iniziato il lavoro di traduzione dei messali in lingua friulana e si espresse il convincimento (allora poteva essere solo un presagio) che la lingua friulana sarebbe diventata lingua liturgica.

Il complesso e impegnativo lavoro delle traduzioni si è poi protratto negli anni, impegnando diversi sacerdoti (alcuni li abbiamo elencati), ma un cenno particolare spetta a don Antonio Bellina per aver completato la traduzione della Bibbia.

Ma tutto questo sforzo intellettuale ed economico sarebbe stato comunque importante ma non avrebbe raggiunto lo scopo se, a partire dagli anni del post terremoto, anche i politici non si fossero resi conto che la lingua friulana andava tutelata e valorizzata con leggi della Repubblica.

E così, nel 1978, i deputati Scovacricchi (allora Psdi) e Baracetti (allora Pci), presentarono le prime proposte di legge che hanno portato alla approvazione - tanti, troppi anni dopo - della legge 482, alla fine del 1999.

Con questa legge, come è stato giustamente scritto, "cadeva l'ultimo diaframma che si frapponeva al pieno riconoscimento della lingua friulana come lingua liturgica."

Una lunga, tormentata strada - come abbiamo detto - sulla quale in molti hanno camminato. Alcuni non sono più tra noi e non possono godere di questo successo e dobbiamo ricordarli con grande affetto e riconoscenza.

I laici che sostennero questa giusta causa militavano in partiti diversi (Pci, Psi - e non si deve dimenticare il grande apporto di Loris Fortuna - e Psdi) e dovettero insistere per smuovere la prudente Dc e battersi sempre contro l'opposizione delle Destre, opposizione mai cessata, neppure nella fase finale dell'iter parlamentare, addirittura con appelli al Presidente della Repubblica perché, dopo l'approvazione definitiva, la legge non venisse promulgata.

Questo va anche ricordato, perché se ci sono meriti ci sono pure demeriti di cui tener conto.

 

Il territorio del Friuli

(pubblicata nella rubrica "La posta dei lettori" - "Messaggero Veneto" del 9.2.2001)

Egregio Direttore,

innanzi tutto La debbo ringraziare per l'ospitalità che mi ha ripetutamente concesso, consentendomi di far conoscere ai lettori del Suo giornale talune mie opinioni.

Dai Suoi articoli ho tratto il costante convincimento che Lei, pur venuto qui recentemente "da fuori", è sinceramente persuaso delle ragioni del Friuli, ne comprende i problemi, si impegna a fare del Giornale un sempre più importante strumento per la crescita anche culturale della nostra regione.

E quando scrivo "regione" non intendo riferirmi a quella istituzionale: a quel Friuli-Venezia Giulia che è una sicuramente una realtà, ma che non è quel Friuli al quale alcuni, come chi scrive, intendono riferirsi.

Ebbene, proprio perché convinto della grande importanza che ha il Giornale nel contribuire a formare (o riformare) nell'opinione pubblica il concetto di Friuli-regione (cioè del Friuli che non è solo la provincia di Udine) debbo intrattenerLa su due titoli apparsi in prima pagina, nella edizione di martedì 6 febbraio u.s.

Sotto il titolo principale "Friuli, la piaga dei naziskin" si legge il sommario "Arrestati per l'agguato di Bolzano quattro friulani, due pordenonesi e un goriziano" (Nell'occhiello si specifica pure "In cella anche due triestini").

Il lettore trae sicuramente da un simile titolo la convinzione che il Giornale consideri che solo quattro arrestati siano friulani (e cioè i soli che risiedono nel Friuli centrale e che il Friuli si limiti quindi alla provincia di Udine), mentre i due pordenonesi e il goriziano appartengano ad altra entità territoriale.

Ma sullo stesso giornale, nel titolo accanto a questo, vi è la dimostrazione di una contraddizione evidente.

Si legge: "Fra gli eletti in Friuli il più ricco è Sgarbi poi Volcic e Camerini". I parlamentari regionali sono elencati tutti, cioè sia quelli eletti in provincia di Udine, che quelli eletti nelle province di Gorizia e Pordenone e persino quelli eletti in provincia di Trieste.

Ma allora, qual è la dimensione territoriale del Friuli? Lo costituisce solo la provincia di Udine, oppure, come è giusto, anche i territori delle province di Pordenone e di Gorizia? E la provincia di Trieste è forse Friuli?

Proprio - mi ripeto - per il notevole ruolo che va attribuito al Giornale, una maggiore attenzione (forse solo coerenza geografica) non guasterebbe.

Mi rendo perfettamente conto che essere rispettosi di realtà geografiche complesse (come nel caso di queste terre) richiede una vigile attenzione. Altrimenti può capitare - come è accaduto di recente, sempre su queste colonne, a quello che sicuramente è il più illustre scrittore friulano - di considerare il corso del Tagliamento come confine occidentale del Friuli.

 

PROMESSE FRIULANE

"Polo e Lega accantonano il Friuli storico". Questo il titolo a pagina 10 (Regione) di sabato 17 febbraio.

Il resoconto spiega poi le diverse posizioni: una vera Caporetto (sembrerebbe) per quelli che sostengono la tesi dell'unione delle tre (domani quattro) province della regione friulana.

Ma sia consentito che si rifletta sulla siderale differenza tra le promesse e i fatti, riflettendo serenamente sulle posizioni di ieri e di oggi di componenti dell'attuale maggioranza e persino di una forza politica che è all'opposizione..

Cominciamo da Forza Italia. Non si possono non ricordare i manifesti di questo partito, affissi in tutto il territorio regionale durante la campagna elettorale per le regionali del 1998.

A Trieste si leggeva: "Trieste come Trento - il Friuli come Bolzano"; a Udine e nel territorio friulano "In Friuli come Trento - Trieste come Bolzano". A parte la evidente preoccupazione patriottarda di ricorrere alla "inversione" Trento-Bolzano, questi manifesti mostravano il chiaro impegno di procedere - se vittoriosi - alla divisione della attuale regione, sul modello del Trentino-Sud Tirolo/Alto Adige.

Non si deve dimenticare che elemento importante di Forza Italia regionale è la Lista per Trieste, i cui esponenti - forse anche per assonanze fraterne - sono riusciti a stringere un patto politico direttamente con Silvio Berlusconi e quindi nel partito contano come l'asso di denari, mentre la componente friulana conta come il quattro, carta che a qualunque gioco conta notoriamente poco o nulla.

La Lista per Trieste - parlino gli atti ufficiali del Consiglio regionale - è stata sempre convinta, fin dal suo costituirsi - che bisogna realizzare in questa regione due aree distinte: Trieste con Gorizia, il resto del territorio per conto suo. Si può discutere sul "taglio" territoriale, ma il progetto è sempre stato questo.

Non si possono neppure dimenticare i manifesti per la campagna elettorale delle provinciali di Udine nei quali campeggiava la scritta "Un presidente per il Friuli", come non si possono dimenticare i proponimenti, discorsi e atti dell'eletto ing. Carlo Melzi (si aggiunge, per dare il giusto sapore, e neppure si possono dimenticare i proponimenti e i discorsi del candidato dello sconfitto centro-sinistra, Ivano Strizzolo).

Occupiamo ora della Lega Nord della quale - stanti i continui mutamenti di denominazione - è impossibile oggi scrivere quella ufficiale.

Sta il fatto che questo partito ha, nella regione (così risulta consultando l'Annuario 2000 edito dal Consiglio regionale) due diverse "segreterie nazionali" (sic): una denominata "Segreteria nazionale Friuli" e una detta "Segreteria nazionale Trieste".

La "Segreteria nazionale Friuli" si articola in 3 segreterie provinciali: una ha (o aveva) sede a Mariano del Friuli, provincia di Gorizia; una a Reana del Rojale, provincia di Udine e una a Pordenone per quella provincia.

Che significato ha questa articolazione che si ritiene giusto definire persino "nazionale" se poi l'attuale commissario leghista Beppino Zoppolato ritiene importante fare sottili distinzioni lessicali affermando che "parlare di Friuli storico è stato un errore" (sono d'accordo con lui, almeno su questo) e il termine più giusto sarebbe stato e sarebbe "aree interfunzionali"? Da un commissario "nazionale" friulano sarebbe lecito attendersi pronunciamenti diversi, che entrassero nel merito e non si limitassero all'etichetta.

E arriviamo così all'Unione Friuli, che non solo è nella maggioranza di centro-destra ma è anche in Giunta con l'assessore Pozzo.

Credo che un mio vecchio amico, compagno di accese battaglie in Consiglio regionale alla fine degli anni '60, che mi risulta avere una carica di rilievo in quella "Unione", non possa che sentirsi a disagio. A Pozzo va bene parlare "del Friuli-Venezia Giulia del futuro". Che senso ha aggiungere "ed anche del Friuli del futuro"?

Per concludere devo necessariamente occuparmi anche del partito al quale attualmente sono iscritto: il partito dei Democratici di sinistra.

Ho letto un fiero attacco alla Lega Nord che - secondo gli attuali dirigenti - "pensa di delineare una patria ed un popolo contro lo Stato nazionale". Confesso che il linguaggio mi pare quello del Msi vecchi tempi, ma non posso fare a meno di osservare che, non molti mesi fa, il segretario regionale del partito al quale sono iscritto inviò una affettuosa lettera al senatore Roberto Visentin, allora ancora l'uomo di punta della Lega Nord, amoreggiando amabilmente con lui. Pensava allora Alessandro Maran che lo "Stato nazionale" non sarebbe stato in pericolo se Visentin, anziché manco rispondergli - gli avesse detto: "Facciamo un pezzo di strada insieme, come ai tempi della Giunta Cecotti."

Confesso, e anche questo mio intervento lo dimostra, di capir poco di politica (specie di questa "moderna"), ma per me tra il dire e il fare c'è sempre la coerenza, anche sbagliando.

(Articolo pubblicato sul "Messaggero Veneto" del 19 febbraio 2001, pagg. 1-2)

 

FRIULI, L'INCUBO DEI PROCONSOLI

E la nascita del 'Friuli storico' non sarebbe che il primo passo per dar vita a una sorta di 'Stato regionale' tendenzialmente indipendente e sovrano."

"E' il segno di una 'friulanità' così particolaristica, protestataria, chiusa e gelosa da sconfinare, esplicitamente o implicitamente, nel separatismo."

Queste due severe censure sembrerebbe mi siano cadute addosso come macigni capaci di seppellirmi. Vade retro a chi pensa all'identità friulana come valore da difendere! Tu (io) - traditore della patria (quale?) - trami per costituire uno Stato friulano sovrano anche facendo risorgere Bertrando!

Così, col severo dito puntato verso di me, si ergono Alessandro Maran (per inciso, segretario regionale dei Democratici di sinistra, partito al quale sono iscritto, e da Maran sono ancora in attesa di scuse per un malevolo giudizio apparso su queste colonne il 16 novembre 1999, essendo risultati finora vani tutti i miei appelli agli organi istituzionali del partito) e Mario Cervi, al tempo articolista del "Corriere della sera".

E sì, perché tra questi due coincidenti anatemi stanno la diversità politica degli autori e la diversità temporale: Cervi scrisse così il 18 aprile 1968, alla vigilia delle elezioni regionali che mi videro eletto; Maran l'altro giorno su questo giornale.

Sono passati, dunque, 33 anni eppure l'infondata accusa rimane sempre la stessa.

Credo di avere il diritto di difendermi. Lo faccio appellandomi ad una legge della Repubblica italiana (la legge 482 del 1999) che, rendendo finalmente giustizia non soltanto ai friulani ma anche ad altre 11 "minoranze linguistiche storiche" presenti nello Stato, ne ha certificato l'esistenza e il diritto alla tutela.

L'articolo 3 di questa legge recita: "La delimitazione dell'ambito territoriale e subcomunale in cui si applicano le disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche storiche previste dalla presente legge è adottata dal consiglio provinciale, sentiti i comuni interessati, su richiesta di almeno il quindici per cento dei cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei comuni stessi, ovvero di un terzo dei consiglieri comunali dei medesimi comuni."

Da questa normativa appare evidente che, in presenza di una minoranza tutelata dalla legge, se ne può (attenzione: non se ne deve!) delimitare l'ambito territoriale. Maran scrive incautamente che "il riordino del governo locale" servirebbe a chi sostiene la tesi alla quale fermamente si oppone " a delineare una 'patria' e un 'popolo', definendo un territorio etnico omogeneo e circoscrivendo una specie di anacronistica e ottocentesca 'area nazionalitaria' friulana di tipo federativo, avente Udine come capitale", concludendo che questo non sarebbe che il catastrofico preludio alla proclamazione di uno Stato "indipendente e sovrano".

Che cosa sta invece accadendo in Friuli? (e un accorto politico, come dovrebbe essere il segretario di un grande partito, se ne dovrebbe essere accorto)

Un ampio schieramento sicuramente "trasversale", ovvero non composto solo da quei quattro friulanisti tra i quali ho l'onore di annoverarmi come era nel 1968, sta - anche attivando la base popolare attraverso una raccolta di firme - riproponendo ancora una volta ai politici (a quelli abili e anche a quelli meno abili) la questione della delimitazione geografica (non storica) del Friuli, percorrendo niente altro che quella democratica via prefigurata dalla richiamata legge.

E a questa legge si richiamano anche quelli che chiedono maggiore rappresentazione del Friuli dalla radio e dalla televisione di Stato, poiché nell'art.12 è detto: "Nella convenzione tra il Ministero delle comunicazioni e la società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo e nel conseguente contratto di servizio sono assicurate condizioni per la tutela delle minoranze linguistiche nelle zone di appartenenza. Le regioni interessate possono altresì stipulare apposite convenzioni con la società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo per trasmissioni giornalistiche o programmi nelle lingue ammesse a tutela, nell'ambito delle programmazioni radiofoniche e televisive regionali della medesima società concessionaria; per le stesse finalità le regioni possono stipulare appositi accordi con emittenti locali."

Si tratta quindi di iniziative assolutamente limpide, senza secondi fini, che sono conseguenti a quella importante svolta determinata dalla approvazione della citata legge 482 e, recentemente, anche dalla legge di tutela della minoranza nazionale slovena.

Insomma, a Roma, nel Parlamento della Repubblica, si è finalmente capito (sospinti anche dal Parlamento europeo) il diritto delle minoranze nazionali e linguistiche e si è dato alla gente e alle istituzioni gli strumenti per farsi protagonisti ; in provincia - che spesso accusa Roma di non capire i problemi o di capirli in ritardo - taluni, anziché pacatamente ragionare, agitano gli spettri della secessione e dell'indipendenza e le voglie di riconquista di patrie perdute.

I proconsoli, insomma, non sono in sintonia né con il centro né con la gente che li attornia. Vivono le loro paure chiudendosi (loro sì) e cercano di trasmettere questi loro irragionevoli timori alla gente attraverso la prospettazione di scenari istituzionali che sono solo frutto dei loro incubi.

(articolo pubblicato sul "Messaggero Veneto" del 2 marzo 2001)

 

 

I FORZATI DELL'UNITA'

Non posso che prendere atto che Alessandro Maran, segretario regionale dei Democratici di sinistra, partito al quale sono iscritto - mentre non risponde alle mie lettere private (11 novembre e 9 dicembre 1999) - è singolarmente reattivo a dialogare con me dalle colonne di questo giornale che dà spazio ad un significativo dibattito su questioni di sicura attualità.

Devo poi registrare con gioia sincera di aver propiziato il manifestarsi dell'orgoglio delle radici dell'uomo politico maranese, che ha così ben ricordato la sua antica famiglia di pescatori, vissuta e vivente in uno dei più antichi centri della regione (al quale giustamente rivendica la parlata paleo-veneta), e lo assicuro che questo suo slancio non mi suscita irritazione, ma lo comprendo al pari del mio, quando ricordo la mia bisnonna (Guggenberger) e la mia nonna (Bandian) e mio nonno Del Frate, manovale emigrante in Ungheria e i suoi quattro fratelli contadini emigrati in Argentina, come un fratello di mio nonno paterno che emigrò anche lui in Argentina qualificandosi all'imbarco contadino.

Maran s'adonta perché ho usato la figura retorica (poi finita nel titolo del pezzo, titolo che, come tutti sanno, viene deciso dal giornale) dei "proconsoli" (al plurale), che, secondo me, su questo tema non sarebbero "in sintonia né con il centro (Roma) né con la gente che li attornia." E da qui la filastrocca del "distanziamento" dei vicini da parte dei vicini, il tirare in ballo gli avvocati per finire - era fatale! - alla citazione degli ebrei.

Bisognerebbe intanto determinare chi, in questa regione (ma anche in un partito X), è trattato da "ebreo" da chi si crede "cristiano"!

Il mio riferimento ai "proconsoli" Maran lo mette sul personale e così mostra di credersi più importante di quello che è. Chiarisco che - secondo me - pare evidente che proconsoli ci sono anche nella Lega Nord (nazione Friuli e nazione Trieste; questi ovviamente prendono ordini da

Milano) e in Alleanza nazionale.

Dato che a me interessa che il discorso vada avanti, non so se Maran e gli altri segretari nazionali/regionali/proconsoli mettano altrettanto impegno a Trieste per frenare lo slancio degli oltre 50 mila triestini che hanno firmato per la provincia autonoma.

A questi non interessa evidentemente la ricetta di Maran ("creare, come avviene in tutti i paesi industrializzati avanzati, una pubblica amministrazione che funzioni meglio e costi di meno", ricetta che a me pare identica a quella di Berlusconi), ma intendono marcare una propria "identità" che - come quella friulana - nulla ha a che vedere come la maraniana "società distinta".

Leggo sui giornali che a Trieste si dicono per la provincia autonoma "i Franzutti, i Marini, i Menia, i Camber, i Belloni" (ovvero uomini di spicco della Lista per Trieste-Forza Italia, di Alleanza nazionale e della Lega nord, nazione di Trieste). Così su "Il Gazzettino" dell'7 marzo).

Maran dimentica che, nella non lontana estate 1999, mi sollecitò uno scritto da pubblicare su "D.S.", organo dei democratici di sinistra della regione. Il pezzo uscì sul n. 4, novembre 1999, sotto il titolo (non mio) "Un miracolo etnico chiamato Friuli". Quel pezzo si concludeva così: " La sfida è credere che tra un secolo possa avere ancora un senso parlare di popolo friulano - che sarà un popolo etnicamente composito come in tanti altri luoghi d'Italia, d'Europa e del mondo - di un popolo almeno un poco diverso da quelli che avranno dovuto purtroppo perdere, dimenticare, cancellare, distruggere le loro identità."

Maran pensa che per vincere questa sfida basti berlusconianamente assicurarci che ci sia una pubblica amministrazione che funzioni meglio e che costi meno, che si compri la carta su cui scrivere gli atti all'ingrosso anziché al minuto. Io credo che la sfida sia nella frase che l'organo del Democratici di sinistra che ho citato mise in evidenza in un riquadro: "La sfida è credere che tra un secolo possa avere ancora un senso parlare di popolo friulano".

Mi pare che il suo sia davvero "il rimedio della nonna", frutto di un neoliberalismo senza anima, un neoliberalismo che serve ottimamente ai profeti della globalizzazione: "Ben pasciuti e indifferenti; tranquilli e tutti uguali!" (grottescamente si potrebbe pensare ad una rivincita del comunismo in versione consumistica).

Non credo sinceramente che questa sia una posizione di sinistra (del resto, il consigliere regionale Fontanelli del Partito dei comunisti italiani, proprio su queste colonne, recentemente ha manifestato attenzione e comprensione assai diverse). Sono convinto, infatti, che quella di Maran non sia che la riproposizione della politica della Democrazia cristiana regionale, anni 1964 e seguenti. "Trieste e il Friuli si saldano con lo sviluppo economico." Lo sviluppo, specialmente in Friuli, sicuramente c'è stato, ma se stiamo a discutere di questo problema vuol dire che il vero rimedio della nonna (una scodella piena per tutti, pancia piena non borbotta) non è servito a questo scopo.

Nei confronti delle nuove generazioni di triestini e di friulani dobbiamo, dunque, assumere un inderogabile impegno: sciogliere questo nodo che costringe la nostra gente, dopo quasi 40 anni di forzata "unità", a impegnarsi firmando petizioni, a Trieste e in Friuli, indubbiamente rinfocolando antagonismi paesani e certo alimentando anche sentimenti non proprio nobili, ma la colpa non è della gente ma di chi la costringe.

Far finta di niente, credere che basti mutuare il neoliberismo efficentistico significa eludere le nostre responsabilità.

Ho accostato Maran (2001) a Cervi (1968) soltanto per dimostrare che, passati tanti anni, mentre resta nella gente la vocazione alla distinzione (attenzione: dobbiamo, secondo me, favorire la distinzione per evitare la separazione!), da parte di taluni si dimostra la sordità più totale che significativamente fa ripetere a chi (Maran) nel 1964 aveva sicuramente i calzoni corti gli stessi anatemi che Cervi (allora, come oggi, giornalista di spicco) lanciava contro la gente e - si perdoni l'immodestia - anche contro il gruppo del quale facevo parte: i miei pochi amici di allora.

articolo pubblicato sul "Messaggero Veneto" del 9 marzo 2001, pagg. 1-10)

 

Trieste va, e il Friuli?

La Corte di Cassazione ha dato il via libera ai contrapposti referendum sulla legge costituzionale approvata in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera, recante "Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione".

Il referendum con posizioni contrapposte, in quanto l’Ulivo sostiene il sì (e vorrebbe che si votasse il 13 maggio) e la Casa della libertà sostiene il "no" e respinge l’ipotesi dell’abbinamento, verrà sicuramente indetto.

La data sarà quella che sarà ma dovremo andare a votare dichiarando se siamo d’accordo o se siamo contrari a questa riforma.

Non è il caso di fare pronostici sull’esito del voto e quindi freddamente esaminiamo entrambe le possibilità. Se dovesse vincere il sì la riforma entrerebbe in vigore nei termini in cui è stata approvata; se dovesse vincere il no si dovrebbe ricominciare da capo.

E’ ragionevole tuttavia pensare che alcuni punti della riforma verrebbero riproposti. Tra questi sembra pacifico che verrà riconfermata la modifica all’art. 114 della vigente Costituzione che - nel testo approvato - viene sostituito dal seguente: "La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione."

La riconferma del ruolo delle province rende, secondo chi scrive, inutile ogni artificiosa discussione su altri enti che si vorrebbero costituire per sostituirle, e - al di là di questa tutto sommato marginale osservazione - balza in tutta la sua evidenza un nuovo ruolo: quello della Città metropolitana che, al pari di Comuni, Province e Regioni, avrà "propri statuti, poteri e funzioni."

Trattandosi di un nuovo ente, è pensabile che poteri e funzioni verranno logicamente a situarsi tra i poteri e funzioni delle regioni e quelli delle province.

Perché è pensabile che le Città metropolitane verranno alla fine istituite, sia che vinca il sì in prima battuta, sia che vinca il no e che una nuova e diversa maggioranza riproponga modifiche a questa parte della Costituzione?

Perché quattordici città (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo, Messina, Catania, Cagliari e Trieste) hanno recentemente "deciso di spingere il pedale dell’acceleratore per la costituzione delle aree metropolitane."

Così abbiamo letto recentemente. E si affermava. "Le città metropolitane hanno già definito una linea operativa che vede il sindaco del capoluogo governare l’area metropolitana in una sorta di parlamentino composto dai sindaci dei Comuni che ne fanno parte."

Quindi queste 14 città (tra le quali Trieste, che abbiamo elencato per ultima ma che, naturalmente, ci interessa per prima), città che sono governate da sindaci espressione del centrodestra e del centrosinistra, hanno le idee chiare. Insomma, anche da questa presa di posizione, dalla costituzione futura delle città metropolitane/aree metropolitane è difficile che si possa prescindere.

Che cosa accadrà nel Friuli-Venezia Giulia ? (continuò a scriverlo così, anche se ho preso atto della "furbata" - e non dell’ ingenuamente creduto refuso - con il quale nell’articolo 116 della proposta di modifica della Costituzione la nostra regione è diventata "Friuli Venezia Giulia", facendo saltare il trattino e così tentando di mettere insieme una realtà storico-geografica millenaria - il Friuli - con una entità storico-geografica inesistente - la Venezia Giulia).

Difficilmente Trieste potrà diventare una provincia autonoma, sul modello del Trentino-Alto Adige/Sudtirol. Diventerà sicuramente una Città metropolitana, moltro probabilmente centro di un’area metropolitana. Avrà costituzionalmente garantito un proprio statuto, propri poteri e proprie funzioni.

Si tratterà - in buona sostanza - di un evento invocato dagli autonomisti friulani dal 1945. Trieste diventerà finalmente veramente arbitra del proprio destino, e chi la pensa come me non potrà che rallegrarsene.

A questo punto, dopo aver visto naufragare il disegno di chi proponeva la tesi che tutta la regione poteva essere considerata "metropolitana" (si vede che chi era così convinto ha girato poco il territorio!), si apre il problema di definire - come fu detto dell’Austria, dopo il 1918 - che sarà di "quello che resta", ovvero del Friuli.

Anche i triestinisti più accesi sembrano aver cessato di pensare al Friuli orientale, ovvero al goriziano o isontino che dir si voglia. Si accontenterebbero adesso di Grado, Monfalcone e Doberdò del lago.

E’ del tutto evidente che il futuro di quest’area "residuale" (che è la gran parte dell’attuale Friuli-Venezia Giulia) deve essere già oggi pensato dalle forze politiche, se queste sono consapevoli che non ci si può lasciar travolgere dagli avvenimenti, oppure imprigionarsi da sole in proposte arzigogolate, autentici tentati di fuga dalla realtà, rinvii usati come cortine fumogene.

Mi pare - sulla base di elementi obiettivi - che il futuro prefiguri con chiarezza estrema la "articolazione" della attuale regione. Trieste città/area metropolitana sarà finalmente in grado di dimostrare a tutti di essere in grado di camminare da sola, di scegliere da sola, di rappresentare - anche culturalmente, se crede - la sua "giulianità", della quale in parte va fiera e che l’ha finora accreditata spesso delle attenzioni di "mamma Roma".

Del resto, in una recente lettera del presidente di Alleanza nazionale, on. Fini, a un autorevole esponente del movimento "Amare Trieste", è chiaramente detto che questa regione - che altri considerano una perfetta e premeditata "costruzione" costituzionale, pertanto immutabile - è la conseguenza del disastro della guerra perduta e dei contrapposti sentimenti dei costituenti, che numerosi anche speravano che non solo Trieste, come poi avvenne, ma anche l’Istria e persino la Dalmazia, in tutto o in parte, potessero essere comprese nel territorio della neonata Repubblica italiana.

Questo riconoscimento obiettivo e "storico" che viene da Destra, così chiaramente espresso, induce a pensare che - al di là di ogni barriera partitica - un nuovo progetto sta, sia pur lentamente, prendendo forma.

(articolo pubblicato sul "Messaggero Veneto" del 29 marzo 2001, pagine 1 e 6)

 

Ricordare le radici senza polemizzare

Non mi sarei sentito stimolato a riprendere argomenti di Alberto Garlini, il quale ora ha bandito una sua crociata contro i libri di testo "scritti in koinè", da adottare nelle scuole (libri che lui ipotizza, dato che al momento non esistono), mentre afferma che con "tutti" (sic) è anche lui d’accordo "finché si parla in generale di miti celtici (sic), del patriarcato, di lingua friulana, del nostro Friuli, del cento per cento Friuli, del voler bene o male alla terra, dell’immaginario etnico, finché si sventolano le bandiere, e ci si riconosce nei modelli dell’onestà e del lavoro."

Come si fa a prendersela con uno che, al di là delle apparenze, se fosse davvero convinto di quello che scrive sarebbe certo più "friulanista" di me? (ho diverse riserve sui celti, sul patriarcato, sul Friuli del cento per cento, dell’immaginario etnico e persino delle bandiere).

Intervengo perché Garlini ha scritto una palese menzogna quando afferma, sicuramente riferendosi a me (pur non nominandomi):"diversi interlocutori sono stati accusati, nemmeno tra le righe, apertamente, di non essere etnicamente corretti: Alessandro Maran, perché maranese e quindi non parlante friulano (…)"

Ora, su queste ospitali colonne si sono incrociati i pareri di chi scrive ("Friuli, l’incubo dei proconsoli" 2/3) e di Alessandro Maran ("I rimedi della nonna" 8/3). In quell’ articolo, Maran - segretario regionale dei Democratici di sinistra, partito al quale sono iscritto - orgogliosamente rivendicava la sua provenienza "da una antica famiglia (di pescatori) di uno dei più antichi centri della regione (dove però si parla un dialetto paleo-veneto, rimasto immobile per secoli)" e, cercando un aggancio polemico nei mie confronti, azzardava che questo per me avrebbe dovuto essere "forse un ulteriore motivo di irritazione."

Gli risposi subito ("I forzati dell’unità" 9/3):

"Devo poi registrare con gioia sincera di aver propiziato il manifestarsi dell'orgoglio delle radici dell'uomo politico maranese, che ha così ben ricordato la sua antica famiglia di pescatori, vissuta e vivente in uno dei più antichi centri della regione (al quale giustamente rivendica la parlata paleo-veneta), e lo assicuro che questo suo slancio non mi suscita irritazione, ma lo comprendo al pari del mio, quando ricordo la mia bisnonna (Guggenberger) e la mia nonna (Bandian) e mio nonno Del Frate, manovale emigrante in Ungheria e i suoi quattro fratelli contadini emigrati in Argentina, come un fratello di mio nonno paterno che emigrò anche lui in Argentina qualificandosi all'imbarco contadino."

Altro che accuse a Maran di non essere "etnicamente corretto"!

Dandogli atto della nobiltà della sua origine maranese e della peculiarità della parlata di quell’area paleo-veneta, dichiaravo altrettanto orgogliosamente di avere bisnonna e nonna di origine chiaramente transalpina, dichiarando così che la cosiddetta "correttezza etnica" (se qualcuno volesse cercarla, ma forse è solo Garlini e qualche folcloristico "patriota" che la tirano in ballo) manca anche a me, al pari di lui.

Maran non ha risposto neppure più pubblicamente (forse troppo preso da momento pre-elettorale). Adesso gli fa da paladino Garlini, ma la causa è - come dimostrato - irrimediabilmente compromessa dal falso.

A proposito del metodo con il quale, secondo me, si dovrebbe applicare la legge 482/1999 (quella che consentirà l’ingresso di libri di testo in friulano nelle scuole, evento che suscita i giusti timori di Garlini), devo ricordare che mi sono già espresso chiaramente.

Trascrivo da un articolo pubblicato su queste colonne in dicembre ("I partigiani della koinè" 24/12/2000): "Siccome questa è una legge di impostazione spiccatamente democratica, che

deve essere gestita dal basso, non ho capito né apprezzato il fatto che la Provincia di Udine abbia, con atto d’imperio, incluso nell’ambito di tutela anche Comuni che non si erano sentiti coinvolti e quindi non avevano inteso chiedere di essere compresi nell’ambito territoriale di cui all’art. 2. E’, secondo me, un pessimo inizio: siamo e saremo friulani solo se abbiamo e avremo la dignità di sentirci friulani."

(articolo pubblicato sul "Messaggero Veneto" il 31 marzo 2001, nella rubrica "Dibattito", edizione di Udine)

 

IL TOPOLINO AUTONOMISTA

Il Consiglio regionale, nella seduta di martedì 10, ha approvato con 27 voti la legge che norma la riforma delle autonomie (il plenum del Consiglio - come è noto - è di 59 votanti, perché tradizionalmente il presidente non vota: quindi i favorevoli risultano essere minoranza).

Il consigliere Puiatti, votando contro, ha osservato che "con l’aiuto di tutti gli ostetrici regionali, sono state interrotte le doglie, ed è nato - dalla montagna - un topolino rachitico e cieco."

La legge chiarisce, all’art. 1, primo e secondo comma, le finalità: "1. La presente legge detta disposizioni generali in materia di riordino della Regione e di conferimento di funzioni e compiti alle autonomie locali nel rispetto fondamentale dell’unità regionale in un contesto di pari dignità con le autonomie locali e di valorizzazione delle peculiarità territoriali."

Si evidenziano due elementi su cui riflettere. Da un lato vi è l’affermazione di voler sottoporre le autonomie locali al "rispetto fondamentale dell’unità regionale"; dall’altro si riconosce la pari dignità di queste per svolgere proprie funzioni per la "valorizzazione delle peculiarità territoriali."

Osservo che la prima affermazione ha un senso puramente declamatorio: questa regione è forzatamente unitaria il base alla legge costituzionale 31.1.1963, n. 1 e successive modifiche ed integrazioni (art. 1: "Il Friuli-Venezia Giulia è costituito in Regione Autonoma, fornita di personalità giuridica, entro l’unità della Repubblica Italiana, una e indivisibile, sulla base dei principi della Costituzione, secondo il presente Statuto."

Nessuno può pensare quindi di "rompere" questa regione con una legge regionale perché la norma verrebbe a collidere con la norma costituzionale. Da qui l’ovvia convinzione che il richiamo al "rispetto fondamentale dell’unità regionale" altro non è che una inutile declamazione.

L’ articolo riconosce, però, che è necessario si valorizzino le peculiarità territoriali. Questa affermazione è obiettivamente del tutto nuova nella legislazione regionale, almeno ad un livello così alto. Quindi, una regione che si proclama (inutilmente) ingabbiata nella "unità regionale", ma che si riconosce divisa da "peculiarità territoriali".

Il secondo comma ("La Regione, nel quadro della riforma costituzionale della Repubblica, favorisce nuove forme di organizzazione istituzionale per l’esercizio ottimale delle funzioni e dei compiti amministrativi") fa sorgere la domanda: quali potranno essere le "nuove forme di organizzazione istituzionale" che la Regione è impegnata a "favorire" ?

E arriviamo così all’articolo "1 ante sexies" che riguarda "Cooperazione tra le Province - Al fine di valorizzare le locali peculiarità culturali, sociali, economiche e linguistiche e promuovere lo sviluppo delle rispettive comunità, le Province individuano ambiti funzionali e interventi di interesse comune e definiscono congiuntamente le conseguenti modalità di cooperazione."

E’ noto che, in Friuli e a Trieste, si sono raccolte e si stanno ancora raccogliendo firme per richiedere da una parte la istituzione dell’Assemblea delle province del Friuli e dall’altra la provincia autonoma di Trieste.

Il testo approvato sicuramente lascia aperta la facoltativa facoltà alle province che hanno comuni peculiarità (culturali, sociali, economiche, linguistiche) di definire congiuntamente modalità di cooperazione; sicuramente chiude qualunque possibilità in capo ad una singola provincia.

Il topolino visto nascere dal consigliere Puiatti, nato con il conforto di solo 27 voti favorevoli e 4 contrari, è sicuramente cieco ma non del tutto rachitico. Quasi contraddicendosi, qualche passetto ha tentato di compierlo.

Non è riuscito a vedere, questo topolino, che - nel mentre si sente l’obbligo di proclamare in l una legge di terzo livello "l’unità regionale" (ben difesa dalla norma costituzionale) - c’è una realtà dalla quale sarà ormai difficile prescindere.

Anche i friulanisti più accesi hanno - dimostrando oltre a tutto senso di opportunità politica - rinunciato a mettere ora in discussione la proclamata unità regionale, ma ritengono improponibile che non si convenga sul concetto di "Friuli unito" (non sulle definizioni "Friuli storico" o, peggio "Grande Friuli", inventata questa per insinuare sinistramente altre pretese "grandezze" e le loro nefaste conseguenze).

Insomma, una maggioranza numerica di consiglieri regionali eletti in Friuli si è sentita in dovere di ribadire la salvaguardia della unità di una regione sicuramente composita, nata in un momento storico particolare sulle rovine della seconda guerra mondiale, ma non è stata in grado di cogliere il bisogno di sancire che il Friuli, diviso tra un impero e un regno fino al 1919 (e cioè fino alla fine della prima guerra mondiale), è una entità che va ricomposta e riconosciuta, per ragioni che attengono alla cultura, al sociale, all’economia e alla lingua, ora che il pericolo di nuove sventure belliche è obiettivamente fuori dal nostro orizzonte e dobbiamo garantire ai nostri discendenti strumenti adeguati per resistere alla omologazione.

(articolo pubblicato sul "Messaggero Veneto" del 12 aprile 2001, pagine 1, 6)

 

LA LINGUA FRIULANA VA ANCORA DIFESA

La soddisfazione manifestata in una recente conferenza stampa tenuta presso il Centro di plurilinguismo dell’Università friulana, ha indotto la giornalista Raffaella Mestroni a scrivere: "Dopo anni di attesa e titaniche fatiche, la legge che tutela le minoranze linguistiche storiche, friulano compreso, e dunque proprio realtà. Determinante, per quanto riguarda la sua approvazione risalente al novembre 1999 (ma che, per diventare attuativa richiedeva l’ emanazione del regolamento) e il suo miglioramento è stata la forte azione di lobby che il gruppo di friulani, composto dal sindaco di Udine Sergio Cecotti, dal presidente della provincia di Gorizia Giorgio Brandolin e dal prof. Vincenzo Orioles, direttore del Centro internazionale di pluriliguismo di Udine, presenti all’interno del Comitato Tecnico nazionale ha esercitato, senza mai ‘mollare la presa’."

Lode, dunque, ai tre nostrani membri del Comitato Tecnico (uno dei qual, l’Orioles, è sicuramente un convertito, posto che alla fine del 1982, a seguito della deliberazione del Comune di Tavagnacco, voluta dal sindaco comunista Silvano Tarondo, di realizzare la tabellazione in friulano della toponomastica, ricorreva contro tale delibera al Comitato di Controllo, nel vano tentativo di far annullare il provvedimento!). Ma poiché per giungere al risultato ci sono voluti "anni di attesa e titaniche fatiche", è opportuno ricordare non già le persone ma le forze politiche che hanno sostenuto questa lunga e dura battaglia.

E opportuno che gli elettori friulani riconoscano i partiti che si sono battuti per raggiungere questo risultato fin dal 1978 e quelli che invece si sono sempre opposti, fin nel 1999, persino dopo l’approvazione definitiva della legge da parte del Senato.

Tengano ben presente che - come ha detto Sergio Cecotti - le componenti ministeriali in seno al Comitato che ha dato l’imprimatur al regolamento della legge 482/1999 si sono battute per "ridurre la portata del provvedimento".

La legge, quindi, ha ancora oggi tenaci avversari che si annidano nei Ministeri ma anche tra le forze politiche: quelle che si sono sempre fieramente opposte al provvedimento legislativo (i partiti di destra, sollevando anche questioni di costituzionalità) e quelle che - pur apparendo favorevoli - non hanno mosso un dito per far approvare la legge, anzi, con speciose proposte, cercarono di ostacolarne il corso e comunque non la votarono.

Siccome siamo ormai in piena campagna elettorale, rimando alla lettura delle cronache parlamentari dell’epoca, cronache che sono riassunte nel sito www.dicaporiacco.it: così sarà possibile constatare come solo un area del Parlamento - e dal 1978 - si è coerentemente mossa in favore della legge che riconosce i diritti delle minoranze linguistiche storiche in Italia.

Ma proprio perché siamo in pieno clima elettorale, sia consentita una riflessione.

Come si sa, le leggi si approvano ma anche si abrogano o si modificano sostanzialmente, tanto da renderle praticamente inoperanti (per esempio, tagliando i finanziamenti che - nel caso in esame - già appaiono insufficienti, tanto che il prof.Orioles ha detto: " La legge non ha tenuto conto che la sopravvivenza della lingua dipende in massima parte dall’attività scolastica, dimostrando con ciò una notevole miopia").

Questa legge e i relativi finanziamenti sono stati oggi assicurati da un governo di centrosinistra.

E’ in condizione l’on. Fini - che tra qualche giorno sarà in Friuli - di assicurare gli elettori che, andando al potere una maggioranza di centrodestra, la legge non verrà modificata e verrà adeguatamente rifinanziata? Cito l’on. Fini perché prima il Msi, poi il il Msi-Dn, poi An hanno condotto una strenua battaglia contro la legge 482, in base a convinzioni che certo non vanno discusse e alle quali va attribuita la medesima lealtà intellettuale di quelle di chi, invece, si è battuto per far approvare la legge stessa.

Dalle parole di Cecotti abbiamo la recente riprova che a Roma, all’interno dei Ministeri, questa norma è assai poco condivisa e si è fatto molto per ostacolare l’approvazione del regolamento di attuazione.

Gli avversari delle lingue delle minoranze storiche - è evidente - non demordono. Il futuro di una legge con la quale (opinione di Cecotti) "si salverà il friulano" sono dunque appese al risultato delle prossime elezioni politiche e quindi anche al voto che ciascun friulano esprimerà.

(articolo pubblicato sul "Messaggero Veneto" del 20 aprile 2001, pagg. 1, 9)

PROVINCIALISMO PRESIDENZIALE

La più bella immagine giornalistica del "corso" delle istanze conseguenti alla duplicità della regione Friuli-Venezia Giulia (con o senza trattino, secondo i gusti) è quella di paragonarlo ad un fiume carsico: per un tratto questo appare prepotente in superficie e quelle istanze calamitano l’attenzione; subito scompare in profondità e sembra che quelle istanze siano inesistenti, ma per poi ricomparire a risvegliare il dibattito e sparire di nuovo illudendo che il problema sia scomparso del tutto. Fino alla prossima emersione.

Anche recentemente abbiamo avuto la prova di questo andamento ondivago: sembra che il famoso articolo "1 ante" approvato dalla minoranza numerica del Consiglio regionale abbia provocato la scomparsa del nostro immaginario fiume che si è manifestato ancora una volta anche con raccolte di firme di cittadini, e quindi le campagne per le elezioni politiche e per le successive amministrative si sono incamminate sul più quieto e meno impegnativo ruolo di fotocopia del dibattito nazionale e a trattare di quella che sicuramente è solo ordinaria amministrazione.

Hanno quindi avuto ragione i 27 consiglieri regionali che hanno votato quell’articolo che semplicemente ignora 3 questioni che apparivano fondamentali: la costituzione dell’area metropolitana di Trieste; la nascita della quinta provincia della Carnia-Alto Friuli; la istituzione della assemblea delle province del Friuli, e invece fideisticamente riafferma l’unità della regione?

Ma poiché l’attuale presidente della Giunta, il triestino Antonione, molto probabilmente si trasferirà a Roma, preferendo all’essere primo in Gallia l’ombra del Cupolone, si è aperta la inevitabile lotta per la successione.

Appare evidente che i partiti che raccolgono i loro voti in provincia di Udine (definirli "friulani" è sbagliato e impossibile) hanno sofferto come un bruciante vulnus che - dopo una serie ininterrotta di presidenti della Giunta di espressione di questa provincia (resta a sé il caso dell’on. Berzanti, primo presidente, che, di origine extra regionale, era nato a Trieste e risiedeva a Udine e quindi ottimamente rappresentava il compromesso) - fosse toccato ad un triestino di guidare il governo regionale.

Si è manifestato e si sta manifestando prepotente in questa parte della attuale maggioranza di centrodestra la "voglia" (meglio, la pretesa) che il prossimo capo dell’esecutivo sia espressione della provincia udinese (come al solito, creduta e fatta credere essere tutto il Friuli).

Questa, secondo chi scrive, è la prova lampante della irrefrenabile manifestazione del gretto provincialismo che attualmente caratterizza inesauribilmente il livello della politica nostrana, in Friuli e a Trieste.

Recentemente abbiamo sentito un rappresentante spontaneo della triestinità rivelare nel corso di una trasmissione televisiva di aver personalmente favorito l’elezione di 2 consiglieri regionali, candidati poi eletti (uno è perfino assessore!) che avevano con lui stretto un patto d’acciaio per sedere in quel consesso allo scopo di sostenere solo ed esclusivamente le ragioni della amata Trieste.

Non abbiamo colto da nessuna parte doverosi richiami al primo comma dell’articolo 16 dello Statuto della regione - come è noto, è legge costituzionale - che recita: "I Consiglieri regionali rappresentano l’intera Regione senza vincolo di mandato."

E non è forse indice di assoluto provincialismo leggere che un carnico non potrebbe diventare presidente della Giunta essendo un altro carnico ora presidente del Consiglio, perché così verrebbe ad avere troppo potere la montagna?

Insomma: anziché tenere conto delle capacità e delle competenze degli eletti si considerano determinanti i territori circoscrizionali che li hanno espressi, dimostrando in maniera lampante che questa regione - al di là delle declamazioni del mito dell’unità - è invece profondamente divisa per basse questioni di rappresentatività territoriale. Si trascurano, quindi, i fondamentali problemi di assetto istituzionale - giudicandoli elementi di rottura - e, col bilancino del farmacista - si dosano presidenze e assessorati finendo col favorire la provincia di Udine (ma con i "veti" ai carnici persino solo una parte di essa) o Trieste, che se perde la presidenza della Giunta avrà in cambio compensi rilevanti per tenerla buona.

Oggi questo accade essendo maggioranza una coalizione di centrodestra, ma noi siamo fortemente convinti che ciò accadrebbe anche se vi fosse una maggioranza di centrosinistra.

Come sconfiggere davvero il provincialismo, che è il vero tarlo che mina questa ragione, che ne limita le prospettive e ne frena lo sviluppo?

Si tratta di riconoscere chiaramente che questa regione e composta da due parti distinte, una più coesa e più convinta del proprio ruolo (Trieste); l’altra divisa da vecchi e nuovi rancori che le impediscono di essere consapevole di una naturale unità e, proprio per questa unità, di dover comprendere che solo una distribuzione dei ruoli tra le sue diverse aree può far dimenticare quei vecchi e nuovi torti e stabilire un nuovo patto.

E’ evidente che, in questo contesto, la parte che spetta ai politici, ma anche agli intellettuali e alle forze economiche dell’area "udinese", risulterebbe fondamentale.

Sparigliare il vecchio gioco dell’equilibrio/conflittualità Trieste-Udine e sostenere che il nuovo presidente delle Giunta sia espressione dell’ area pordenonese, o di quella goriziana, o di quella carnica potrebbe costituire una importante novità, per ripagare anche evidenti torti subiti con le candidature per il Parlamento dal Friuli occidentale e da quello Orientale.

Per concludere, bisogna tornare a riflettere su quel precetto contenuto nell’art. 16 dello statuto: ciascun consigliere deve essere ben consapevole di rappresentare l’intera regione, senza vincolo di mandato. Se ciò non avviene - come si dimostra - la strada della cosiddetta "unità" è sempre una chimera (ad onta delle enunciazioni) e le spartizioni delle responsabilità di governo saranno sempre frutto di mediazioni non soltanto politiche ma anche (con forse maggiore valenza) territoriali.

E la sensazione che il Consiglio regionale non sia altro che un passaggio dal Liceo all’Università (Roma:Camera/Senato) non può far altro che avvilire l’ istituzione Regione, per la quale uomini come Tessitori e tanti altri si sono battuti da tanti anni (anche non limitandosi a leggere da ragazzi "La Patrie dal Friul" per trarne oggi titolo per essere scambiati per "leader storico dell’autonomismo friulano"), credendo fermamente che fosse più gratificante lavorare in questa nostra "Gallia". Questa - in fondo- è la grande differenza tra la generazione di Berzanti e di Comelli e ciò che è venuto dopo.

(articolo pubblicato sul "Messaggero Veneto" del 1 maggio 2001, pagg. 1, 8)

 

UN SONDAGGIO AUTONOMISTA

E’ opportuno riflettere sui risultati del sondaggio del Cirm, realizzato su un campione di 1.500 intervistati residenti nella regione e commissionato dai gruppi consiliari di maggioranza . I son- daggi - specie quelli con domande "difficilottine" - non sono credibili al 100 per 100, tuttavia rappresentano risultati dei quali bisogna tener conto, piacciano o non piacciano.

Anna Buttazzoni, la giornalista che ha riferito sulla illustrazione dei dati fatta dal presidente dell’istituto, Nicola Piepoli, ha annotato che questi ha affermato che dai dati "emerge una certa disinformazione diffusa, per una regione ben integrata nel tessuto italiano, ma poco informata sui fatti politici e attenta principalmente a ciò che avviene nel proprio quartiere."

Bacchettate, quindi, per tutti: per il cittadino che guarda più al posizionamento del classico bidone delle immondizie che alla struttura e alle facoltà della regione; per gli organi di informazione che - evidentemente - non si sono fino ad oggi sufficientemente impegnati per rendere facile e interessante la comprensione di questa problematica; per i politici che - forse più propensi a mandare a memoria e quindi ripetere slogan e progetti imparati a Roma o a Milano - non hanno aiutato i loro elettori a capire.

Infatti, le "torte" graficamente composte per i due quesiti più interessanti dimostrano un evidente disorientamento.

E’ stato chiesto quanto sia importante l’unità regionale: il 5% si è detto senza opinione; il 9% ha risposto "poco, per nulla"; l’ 82% ha affermato che l’unità regionale è "molto o abbastanza importante".

Dunque, parrebbe quasi un plebiscito per lo status attuale, ma la seconda "torta" ci fa ben comprendere che - ferma la struttura fondamentale della attuale regione - solo il 43% degli intervistati la conferma "ma con rafforzamento dei poteri alle province e ai comuni".

Quindi anche questo 43% è per quello che comunemente è detto "dimagrimento" dell’ente regione.

Ma, e qui cominciano le sorprese (ovvero le contraddizioni), di contro il 19% si dichiara per una "struttura con province autonome, tipo Trento e Bolzano"; il 16% pensa ad una "struttura divisa in due aree: Friuli e Venezia Giulia"; il 6% si dichiara per "altra" struttura.

Sommando i 3 dati (19 + 16 + 6) si arriva al 41% che - evidentemente - non è lontanissimo dal prima citato 43%, tenendo anche conto che quelli che sono "senza opinione" sono ben il 16%.

Le conclusioni che si possono trarre sembrano quindi essere queste: 1) la stragrande maggioranza degli intervistati non ritiene necessario che si creino 2 regioni, ma solo il 43% è d’accordo sulla struttura attuale, però con rafforzamento dei poteri delle province e dei comuni; 2) il 16% di quelli che si sono dichiarati senza opinione sicuramente deciderebbe nel testa a testa tra quelli che sono per la struttura attuale (con la devoluzione di poteri come si è detto) e quelli che - sostanzialmente - sono per una regione divisa, o tipo Trento e Bolzano, o in due aree "Friuli e Trieste", o con altra soluzione.

Bando, quindi, agli entusiasmi televisivi di chi ha creduto di far passare i risultati di questo sondaggio come una schiacciante vittoria dello status quo.

I risultati, invece, sembrano confermare che la "forbice" è ridottissima: il progetto che ragionevolmente si ricava da questo sondaggio si avvicina molto a uno dei progetti in discussione.

Si aggiunge che solo il 46% "non pensa a una Provincia della Carnia" e questo dato è sicuramente incoraggiante posto che tra i 1.500 intervistati presumibilmente pochi saranno stati i diretti interessati, ovvero i carnici.

Da questo sondaggio appare delinearsi abbastanza nettamente come sarebbe opportuno progettare una "nuova regione con patto di unità", che potrebbe assumere la denominazione più propria "Friuli e Trieste".

Chi ha cortesemente seguito le mie argomentazioni su questo tema territoriale in questi anni, sa che sostengo l’inesistenza di un territorio che possa denominarsi "Venezia Giulia". E’ intuibile che mi sia dovuto per questa opinione scansare da parecchie pietre, anche in buona fede scagliate al mio indirizzo.

Ma è proprio di questi giorni la conferma, nella legislazione della Repubblica italiana, della inesistenza della "Venezia Giulia".

Il Parlamento ha, infatti, recentemente approvato un doveroso provvedimento (legge 16.3.2001, n. 72) che reca il titolo "Interventi a tutela del patrimonio storico e culturale delle comunità degli esuli italiani dall’Istria, da Fiume, dalla Dalmazia".

Il legislatore opportunamente non ha usato il termine "Venezia Giulia", ma ha rivalutato quelli reali, nobilissimi e ricchi di storia dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, terre che un termine del tutto ambiguo, artificiale e "inventato" da poco più di un secolo ha rischiato e rischia di sopraffare.

(articolo pubblicato sul "Messaggero Veneto" del 9 maggio 2001, pagg. 1 e 2)

 

I FRIULANI SECONDO IL CIRM

Avendo conseguito, quasi mezzo secolo fa, dopo aver frequentato l’Istituto tecnico "A.Zanon", il modesto diploma di geometra, imparai anche un doveroso rispetto nei confronti di quelli che - usando la forma friulana - "sono più studiati". Per questo, avendo letto su questo giornale il resoconto della presentazione di uno studio condotto dall’ Istituto Cirm per sondare le opinioni degli abitanti della nostra regione su possibili forme istituzionali, ho esposto alcune considerazioni su queste colonne, pubblicate sotto il titolo "Un sondaggio autonomista" (9 maggio), senza entrare nel merito, ritenendo quel sondaggio - commissionato dai partiti che costituiscono la maggioranza nel Consiglio regionale - sicuramente serio.

Successivamente mi è capitato di avere tra le mani una copia della scheda della ricerca n. 21310 con i risultati della ricerca stessa e, subito, sono cominciate le sorprese. Il titolo - che mi aspettavo fosse riferito a tutta la regione è: "I friulani e la Devolution".

Che il titolo sia sbagliato appare leggendo le prime righe dell’elaborato: "La ricerca dell’Istituto Cirm vuole verificare quale sia il parere dell’opinione pubblica rispetto alla proposta di Devolution. Con questo obiettivo è stato utilizzato un campione rappresentativo della popolazione maggiorenne residente nel Friuli-Venezia Giulia, per un totale di circa 1500 interviste."

Quindi gli intervistati - ad onta del titolo della ricerca - non sono stati solo friulani, ma anche residenti nell’altra area della regione.

Ci si aspetta - dopo aver constatato che il titolo non va d’accordo con la descrizione del campione - che questo venga meglio specificato. Ad esempio, si indichi che tot intervistati risiedono nella provincia di Pordenone, tot in quella di Udine, tot in quella di Gorizia, tot in quella di Trieste.

Anzi, meglio sarebbe stato distinguere, entro la provincia di Udine, anche i residenti nell’area montana, per rendere attendibili i risultati relativamente alla richiesta proveniente da quell’area di diventare quinta provincia.

Dal testo dell’elaborato stralcio altri passi: "In ogni caso viene chiesto quanto sia considerata importante l’unità regionale. Ebbene i friulani sembrano invece andare d’accordo (..) Si scopre così che, in linea di principio, l’81% dei friulani è favorevole (…) I friulani nel complesso (…) Relativamente poi alla Viabilità e Trasposti il 30% dei friulani (…) Ancora si è voluto sapere quanto i friulani (…).

E siamo così arrivati a pagina 7, ovvero alla penultima facciata del testo (seguono schemi e le cosiddette "torte").

"Restando in tema di riforme della struttura istituzionale/amministrativa del FVG, si è voluto sapere cosa gli abitanti stessi della Regione pensino riguardo al tanto parlare degli (sic) ultimi tempi di ‘Friuli storico’, di ‘Area metropolitana di Trieste’ o di ‘Provincia autonoma di Trieste’. "

Forma a parte, finalmente appare che gli studiosi preposti si sono resi conto (dopo l’esordio) che la regione è composita, che quindi è sbagliato aver fin qui fatto credere che il campione degli intervistati sarebbe composto solo da "friulani": Infatti scrivono "Del resto questa ipotesi piuttosto drastica caldeggiata da una ristretta minoranza rispecchia lo storico confronto tra friulani intesi in senso stretto (ossia gli abitanti grossomodo (sic) della provincia di Udine) e i giuliani ovvero i triestini."

Si dovrebbe dir qualcosa su questa miope visione che individua "grossomodo" i friulani solo nella provincia di Udine e anche sullo "storico" confronto che, ad ogni modo, ha una data di nascita piuttosto recente (dal 1964, istituzione della regione), ma conviene andare oltre.

Scrivono gli studiosi del Cirm: "Il conclusione è stato chiesto agli intervistati che cosa ne pensino del mantenimento del sistema elettorale proporzionale per il Friuli-Venezia Giulia". E più avanti compaiono "i cittadini della Regione Friuli-Venezia Giulia" e anche "cittadini di Trieste".

Scesi dall’ universo friulano, ecco che gli studiosi del Cirm sono atterrati nella composita realtà della regione. Infatti, cambiando inopinatamente (ma giustamente) il titolo della ricerca, le successive tavole con esposte le conclusioni numeriche e grafiche, s’intitolano "La regione Friuli-Venezia Giulia e la ‘Devolution’".

La fideistica convinzione del modesto geometra che è in me nei confronti di quelli che hanno più studiato risulta comunque fortemente scossa e spero davvero che i committenti partiti che reggono la regione pretendano che il Cirm rettifichi la ricerca per renderla scientificamente attendibile e quindi utile per le loro decisioni circa il futuro istituzionale della regione.

Tuttavia, come ha ben scritto Vittorino Meloni, acuto osservatore della vita politica nostrana, non dovrebbe passare molto tempo da quando, più probabilmente al Senato, verrà depositata la proposta di legge per la costituzione della provincia autonoma di Trieste.

Così hanno assicurato in chiusura della campagna elettorale gli eletti senatori Camber (Casa delle libertà) e Bordon (Ulivo).

In questa assonanza tra i due rappresentanti dei due opposti schieramenti ci è sembrato di cogliere quell’impegno bipartisan (che brutta parola, ma si usa!) che è garanzia di poter ragionevolmente passare dalle inutili chiacchiere ai fatti, per cambiare davvero questa regione.

 

(articolo pubblicato sul "Messaggero Veneto" del 19 maggio 2001, pagg. 1, 6)

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FRIULI INGRATO CON I FRIULANISTI

    Saranno tra non molto 40 anni che conosco l'arcipelago dell'autonomismo friulano (che ha caratterizzazioni politiche) e quello più vasto della friulanità (questo con caratterizzazione specialmente culturale).

   Negli ambiti arcipelagosi dell'autonomismo politico sono stato a suo tempo (1966) critico; poi protagonista eletto in consiglio regionale e in consiglio comunale di Udine (1968 - 1973); indi considerato politicamente "traditore" quando decisi di rinunciare alla rappresentanza politica e di lasciarla ad altri. Poi rieletto consigliere comunale di Udine nella lista del Pci (1980-1985) per servire da "sponda" a chi in quel partito si batteva per quella che, solo nel 1999, diventerà la legge 482; successivamente "riabilitato" dal partito autonomista e messo tra i "saggi" che avevano il compito di suggerire una linea di azione politica (fu allora che conobbi personalmente Umberto Bossi e che ebbi l'occasione di organizzare incontri, forum, tavole rotonde et similia); indi chiamato dal partito autonomista a candidarmi nelle elezioni del consiglio provinciale di Udine nel 1990 (trombato); poi osservatore sempre appassionato e  - a richiesta - suggeritore di questo o di quello.

   In ambito culturale, ma sempre con qualche accentuazione politica cominciando dalla collaborazione al Messaggero Veneto (1964) che mi ospitò nei miei primi passi; quindi con libri, articoli, commenti eccetera; poi dalle colonne di Friuli Sera di Alvise De Jeso; poi per mezzo della fondazione (con l'amico Gianfranco Ellero) del Corriere del Friuli fino all'attuale presenza su Internet e alla rinnovata ospitalità sul Messaggero Veneto.

   Dalle mie alterne fortune alle elezioni è detto. In campo culturale ho avuto un unico riconoscimento: nel 1970 (quando ero considerato uno dei "guastatori" dalla allora dominante classe politica democristiana), il senatore Tiziano Tessitori, democristiano, al tempo anche presidente della Deputazione di storia patria per il Friuli, volle, sicuramente sopravvalutando i pochi meriti che allora avevo in campo scientifico, ammettermi come socio corrispondente a quella istituzione.

    Questo curriculum ha il solo scopo di accreditarmi dato che esprimo qui un giudizio sui miei conterranei, giudizio particolarmente riferito alla loro friulanità (cioè a un complesso di valori - se sono valori - che va ben oltre la questione della lingua) e sta alla giusta metà tra politica a la cultura.

    In questi molti anni ho avuto a che fare con infiammati "patrioti" (pochi), con convinti sostenitori delle ragioni della lingua, con equilibrate, ma poche persone dotate anche di buon fiuto politico, di isolati, straordinari protagonisti (di cui dirò), di fermi sostenitori da osteria (anche esportabili all'estero), di profittatori e di delusi profittatori.

   Gli straordinari protagonisti - uno nel campo politico e uno in quello culturale - furono Fausto Schiavi (che seppe trasformare un gruppo che si sarebbe avvitato su se stesso "alla friulana", in un partito politico, capace di andare positivamente alle elezioni regionali e poi - lui morto nel 1972 - di sopravvivere politicamente in qualche modo fino ai giorni nostri) e Manlio Michelutti, che fu presidente della Società filologica friulana (il più autorevole sodalizio culturale nostrano) dopo una ininterrotta serie di notabili democristiani succedutisi nel dopoguerra, messi lì dal loro partito per fare in modo che l'ambiente non si surriscaldasse e diventasse in qualche modo pericoloso per il potere. Quasi come i croati nella vigna immaginati da Giuseppe Giusti.

    Credo, come ho detto, di avere le carte in regola per affermare che - anche alla luce dei recenti risultati elettorali - noi friulani abbiamo forse grandi pregi e qualche difetto (come si crede!), ma se abbiamo difetti, il più grande tra questi è l'ingratitudine politica.

   Nessuno può negare che a partire dagli anni del dopo-terremoto, specialmente uomini di sinistra si sono resi protagonisti di battaglie importanti per sostenere le ragioni della friulanità (quella vera, viva e operante).

   Si devono citare realizzazioni importanti (la particolare impronta data all'Università friulana nella legge costitutiva; la recente approvazione della legge 482/1999) e altre che possono apparire modeste, ma altrettanto importanti (la toponomastica in friulano che ha visto primi protagonisti due sindaci del Pci, a Prato Carnico e a Tavagnacco).

   Ebbene, il "ritorno" elettorale è stato sempre scarso, ancora più scarso il 13 maggio quando i Ds potevano vantare di aver molto contribuito all'approvazione della fondamentale legge 482 che riconosce anche ai friulani il ruolo di minoranza linguistica storica, approvazione ottenuta nella conclusa 13^ legislatura, con l'impegno dei deputati Di Bisceglie (pordenonese) e Ruffino (udinese), entrambi bocciati alle urne e forse prima dai dirigenti del partito, interamente impegnato sull'asse Trieste-Gorizia.

    Ma anche nei confronti della Lega Nord Friuli, che - sia pure ingabbiata nel padanismo e succube troppo spesso degli ordini provenienti da Milano - nella legislazione regionale si è impegnata a far apparire lodevoli tracce di friulanismo, anche se tracce legate (come, a esempio, alla questione del celtismo, che però si deve ricordare era presente anche nelle idee-guida di Fausto Schiavi) ad aspetti piuttosto esteriori e per questo più facilmente contestabili. Queste reali conquiste della friulanità, nella legislazione nazionale e particolarmente in quella regionale, si tenga conto che sono state ottenute "forzando" alleati sicuramente più contrari che favorevoli, come An (erede del Msi-Dn, un tempo pilastro dei contrari e quiin controtendenza rispetto a Roma), e come i variegati eredi della Dc (che fu favorevole a parole, ma quasi immobile nei fatti) in Parlamento.

    Si sarebbe a questo punto tentati di trarre amare conclusioni: se si vuol far "carriera" in Friuli nei campi della politica e della cultura è opportuno non fare i friulanisti militanti. E' prudente e necessario smaltarsi di friulanità quel tanto che basta per catturare consensi e riconoscimenti, calcando i vieti sentieri del perenne bruntulâ in te ostarie, ma non andare oltre.

    I nostri conterranei dimostrano di essere preda se non dell'ingratitudine più sfacciata, almeno della distrazione, mentre per i triestini sono maestri nello sfruttare ogni buona occasione, anche con disinvolti trasformismi: ieri con la Lista per Trieste (Cecovini, Gruber Benco e Camber insegnano), oggi contemporaneamente sia con la Casa della Libertà - Lista per Trieste (Camber  e Antonione), sia con Lista Illy-Margherita-Ulivo (Illy e Damiani). I friulani risultano, invece, singolarmente attratti da modelli d'importazione, da Roma o da Milano oppure da Trieste, stavolta via Gorizia, che - come afferma il neodeputato dei Ds Maran - << è una provincia tra le più ricche d'Italia, tanto che gli indicatori la mettono al settimo posto assoluto >>. Il benessere, talvolta, si vede rende difficile mantenere il senso dell'identità.

(articolo pubblicato sul "Messaggero Veneto" del 23 maggio 2001, pagg. 1, 2)

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Il Friuli, Illy e Bertossi

 

     Più che dal confronto tra le opinioni dei due candidati alla presidenza della provincia di Udine, Pressacco e Strassoldo (alquanto reticenti su argomenti di rilevante importanza), opinioni autorevoli e stimolanti si possono ricavare da due diverse interviste: una apparsa sul settimanale della diocesi di Udine e l'altra su queste colonne. Intervistati il neo-deputato triestino Riccardo Illy e il presidente della Cciaa di Udine Enrico Bertossi. Illy dimostra di avere una opinione chiara in merito all'Assemblea delle province del Friuli e, in generale, sui problemi della friulanità.
     Condivide, in primis, <<la necessità di tutelare, anzi valorizzare la cultura e la lingua friulana, come, del resto, quella slovena >>. Riferendosi alla proposta assemblea, ritiene che non sia - in questo momento - lo strumento adatto << per le perplessità da parte delle province di Pordenone e Gorizia >>. E subito aggiunge di aver consigliato agli amici friulani << di seguire una formula diversa, ovvero un'assemblea di chi ci sta: della Provincia di Udine, dei Comuni di questa provincia e dei Comuni che si sentono friulani, nelle province di Pordenone e Gorizia. Oggi come oggi, si rischia di perdere tempo prezioso con il progetto totalizzante. Una volta che si parte, anche con una proposta limitata, gli altri Comuni verranno senz'altro dietro >>. Ci pare di poter concludere che l'opinione di Illy è - riguarda al tema della istituenda Assemblea delle Province del Friuli - chiarissima: conosce il progetto ed è favorevole, favorevole al punto di suggerire ai suoi amici friulani di non perdere tempo e di partire con chi oggi si dichiari disposto a realizzare, sia parzialmente, quel progetto. Riguardo al suggerimento, sicuramente manifestato da Illy in perfetta buona fede, mi sento di sconsigliare caldamente ai suoi amici friulani di seguirlo.

     Guai se da Udine partisse un'iniziativa che potesse apparire come tentativo di disgregazione di altre realtà provinciali, a occidente e a oriente; un'iniziativa che potesse essere creduta il manifestarsi di una "colonialismo" che mirasse alla costituzione di un cosiddetto "grande Friuli" del quale apparirebbe come prevalente collante la lingua. Sarebbe un errore imperdonabile. Occorrono, invece, pazienza e raziocinio: due doti che dimostra di avere - oltre che idee chiare - il giovane presidente della Cciaa di Udine, Enrico Bertossi. Innanzi tutto ha rotto il fronte unitario delle Cciaa a livello regionale, abbandonando l'Unioncamere.

     Le motivazioni di questa rottura nulla hanno a che vedere con questioni linguistiche, etniche, romantiche, idealiste. L'ente che Bertossi presiede è composto e guidato da gente che si preoccupa principalmente di far quadrare i conti economici. Se rottura vi è stata, questa ha motivazioni non certo campanilistiche e tanto meno "friulaniste". La Cciaa della provincia di Udine rappresenta da sola il 50% del Pil regionale e quindi rivendica un ruolo adeguato, anche perché - allo stato attuale delle cose - sarebbe tenuta finanziare il 50% della spesa di Unioncamere che viene ripartita per provincia secondo il relativo peso economico.

     Bertossi - il cui obiettivo principale appare quello di una modifica dello statuto della Unione camerale regionale - mette l'accento sul fatto che << la migliore sinergia si attua tra Udine e Pordenone: le due Camere di commercio hanno identità di vedute a fronte di un tessuto economico simile, con le stesse problematiche, bilanci analoghi e insieme rappresentano il 75% dell'economia regionale >>. E aggiunge: << Insieme non vogliamo creare un soggetto autonomo, ma c'è già una collaborazione molto forte >>.

     Ecco. A noi che siamo sì innamorati del Friuli, ma non tanto per le melodiose villotte o per i paesi che non riusciamo più (per fortuna) a vedere com'erano negli anni della nostra giovinezza e quindi non sterziamo con l'auto per tornare indietro per non considerare la realtà, in quanto innamorarsi perché crediamo fermamente che - affinché esista ancora il Friuli negli anni che verranno - occorre assicurarci che si saranno friulani e quindi sviluppo economico e sociale che questa presenza consenta, la riflessione su queste considerazioni ci appare molto importante.
     Gli ostacoli all'istituzione dell'Assemblea delle Province del Friuli certamente ci sono, ma ci sono anche uomini come Illy - che guardano le cose da fuori dei nostri cortili - che sono fondamentalmente favorevoli, tanto favorevoli che - purché si faccia presto - anche consigliano scorciatoie (per noi pericolose).

      Se si comprendesse che la collaborazione tra le Province di Pordenone e di Udine ha prospettive di diventare ancora più forte, se - per esempio - Udine aiutasse concretamente Pordenone nella battaglia per ottenere che il mandamento di Portogruaro entri a far parte di quella provincia, come più volte le popolazioni interessate hanno dimostrato di volere, allora la collaborazione potrebbe estendersi dal campo dell'economia - nel quale già si manifesta - anche a quello della politica.

     Si argomenta spesso che questa è una piccola regione. Ebbene, imboccando questa strada, ci si propone di farla più grande territorialmente, più popolata (rafforzando, tra l'altro, anche la presenza di venetofoni) ed economicamente più forte. Pordenone potrebbe forse rifiutare l'appoggio di Udine? Le alleanze durature si costruiscono dando e non solo chiedendo. resterebbe la questione del Friuli orientale.

      Ma se quei neoeletti parlamentari dell'area triestina (e pure Sgarbi, eletto altrove ma consenziente in campagna elettorale) presentando davvero proposte di legge per la costituzione della Provincia autonoma di Trieste, anche i goriziani avranno modo di chiarirsi le idee.

Gino di Caporiacco

(articolo pubblicato sul "Messaggero Veneto" del 30 maggio 2001, pagg. 1, 10)

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TRACCIATA UNA NUOVA VIA

   Puntuale come i temporali di fine primavera, tra San Giovanni e i Santi Pietro e Paolo, è scoppiata per l'ennesima volta la polemica sull'Osservatorio della lingua friulana (Olf), sui finanziamenti erogati a questo o a quello, sull'utilità di determinati "strumenti" per salvaguardare la lingua friulana.
    Protagonisti che dovrebbero sostenersi a vicenda, Perché impegnati in una stessa battaglia di principi, si sono come al solito contrapposti, con grande gioia dei nemici della lingua e della cultura friulane, per questioni marginali sulle quali sarebbe il caso di passare sopra.
   Di diverso spessore l'atteggiamento assunto dal ricomparso Forum di Aquileia, la cui profumata di San Giovanni ha - così pare - dato fuoco alle micce.

   Questo sodalizio, che si proporrebbe di scrivere << una nuova carta delle autonomie >>, volando fior da fiore su tutta la complessa questione friulana, si occupa anche della Società filologica..

   Ora va premesso che chi scrive da molti anni non è socio di questo sodalizio, e quindi si sente svincolato da qualsiasi preconcetto, ritenendosi libero di esprimere un giudizio equilibrato, come sull'intera questione della lingua friulana in letteratura non avendo mai scritto una riga in marilenghe, in nessuna delle versioni accreditate.
    Il Forum di Aquileia versione Maurensig-Stroili si è augurato che i suoi <<pochi ma essenziali pensieri incontrassero anche il consenso della Società filologica friulana che, finalmente, si esprime con una nuova autorevole rappresentanza e con nuovi obiettivi >>.

   A parte il fatto che a noi sommessamente pare che il confronto tra la versione riveduta e corretta del Forum e la Sff sia simile a quello tra un pedalò e una portaerei (tanto per dare un dato, la Filologica ha oltre 4 mila iscritti; il Forum forse quelli che si possono contare sulle dita di una mano), colpisce quel "finalmente", avverbio sicuramente infelice e diciamo subito perché.
    Dopo una serie quasi ininterrotta di presidenti "politici" (nel primo periodo legati al partito fascista: nel dopoguerra alla Dc), la Filologica - con l'elezione del professor Manlio Michelutti, una decina di anni fa - imboccò effettivamente e davvero finalmente una nuova strada, fissandosi obiettivi di crescita e di apertura organizzativa e culturale, obiettivi puntualmente raggiunti e ben visibili.
    E' inutile ricordare che, pochi mesi fa, Michelutti è morto dopo una breve ma crudele malattia. sarebbe, se fosse vivo, sicuramente ancora presidente della Sff, e quindi quell'avverbio usato da Maurensig suona davvero persino offensivo per la sua memoria.
    E chi incarnerebbe la << nuova autorevole rappresentanza >>?
    Evidentemente, per Maurensig e soci (pochi) del rinnovellato Forum, il dottor Lorenzo Pelizzo, da poco nominato presidente, dal quale tutti dobbiamo attenderci la prova dell'autorevolezza che, se nel suo campo specifico - ovvero nel suo "mestiere" - è nota, tutta è da scoprire come reggitore di un'associazione sicuramente "complessa" e quindi difficile come la Filologica.
    Ma quali sarebbero i <<nuovi obiettivi >>? Non evidentemente quelli di Michelutti che, organizzando magistralmente l'ultimo congresso sociale a Klagenfurt (per la prima volta la Sff è uscita dai confini del Friuli), approvando i progetti di apertura culturale dei periodici della società (con pubblicazione di testi addirittura in 6 lingue), chiamando alla collaborazione anche vecchi soci che si erano persi per strada, ha effettivamente condotto la Filologica, sul campo a raggiungere nuovi, moderni, "rivoluzionari" obiettivi, facendola diventare un'associazione maggiormente integrata con la realtà friulana, più democratica e quindi più aperta a stimolanti esperienze.
    Abbiamo letto che il nuovo indirizzo sarebbe quello della managerialità, quasi che ci si debba staccare violentemente dal passato (caratterizzato da costante laboriosità, fedeltà agli impegni, perfino diligenza quotidiana del concorrere alla vita del sodalizio), per andare verso nuove prospettive imprenditoriali.

   Personalmente siamo usi attendere la prova di ciò che si reclamizza per nuovo, efficiente, magari globalizzante e globalizzato.
    Aspettiamo, dunque, prendendo invece atto che il Forum di Maurensig-Stroili ha aperto il credito nei confronti della nuova dirigenza, garantendole <<tutto il suo pieno appoggio e leale sostegno >>.
    Non è obiettivamente che si tratti di un grande ausilio su cui la dirigenza possa davvero contare molto, ma <<alc al è alc e nuje al è nuje>> (non so se ho rispettato la Koinè, ma devo ammettere che mi interessa poco), come dicevano i nostri vecchi che però anche aspettavano per fare i conti.

Gino di Caporiacco

(Ultimo articolo scritto da Gino di Caporiacco e ripubblicato sul "Messaggero Veneto" del 2 agosto 2001, pagg. 1, 10)